Quando si pensa al whisky per antonomasia ai giorni nostri, si pensa comunemente a quello scozzese.
Se fossimo prima della metà dell’800 penseremmo invece probabilmente a quello irlandese. La tradizione vuole che la distillazione nelle isole britanniche sia stata portata proprio dai monaci irlandesi già dal VI secolo e le cronache ci dicono che una delle prime appassionate sia stata la regina Elizabetta I (1533-1603) che si faceva mandare direttamente il distillato a corte. Lo zar Pietro Il Grande (1672-1725) si spinse a dichiarare <<di tutti i vini del mondo, lo spirito irlandese è il migliore!>> Samuel Johnson, autore del dizionario britannico, inserì la parola whiskey nel 1775 sottolineando “the Irish sort is particularly distinguished for its pleasant and mild flavour”. Al tempo operavano in Irlanda circa 1.200 distillerie e nel XIX secolo ci furono almeno 400 marchi di whiskey presenti negli Stati Uniti.
Durante l’Ottocento, il whisky scozzese era afflitto da mille problemi e scandali, dovuti anche alle frequenti sofisticazioni, ben descritte nel libro Bad Whisky di Edward Burns. La caduta del whiskey irlandese dal paradiso agli inferi passa attraverso eventi sfortunati e scelte sbagliate. L’invenzione prima (1822 Perrier, 1828 Stein) e il perfezionamento poi (1830) dell’alambicco a colonna moderno operato da un ufficiale delle accise, ironia della sorte, irlandese, il famoso Aeneas Coffey, è il primo colpo. Questa innovazione portò sul mercato i blended che tuttora rappresentano oltre il 90% del mercato. Da quel momento il mercato si ampliò enormemente. Gli irlandesi non credettero nell’alambicco a colonna, anzi ne furono fieri oppositori e rimasero tradizionalisti, tagliandosi di fatto fuori dal grande mercato che si venne ad aprire, anche perché di lì a poco la filossera sterminerà la vite nel continente privando le isole britanniche del rinomanto Brandy. Dopo anni di dispute sulla denominazione ‘whisk(e)y’, nel 1909 venne istituita la Royal Commission on Whisky and other Potable Spirits che dopo un anno e mezzo deliberò che anche il distillato prodotto con il Coffey Still potè essere nobilitato dal nome whisk(e)y. Il proibizionismo e la guerra civile, con la successiva indipendenza (1919-1921), emarginarono l’Irlanda dall’impero britannico e dalle enormi potenzialità distributive.
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Nel 1968 nella Repubblica d’Irlanda rimasero solo cinque distillerie attive che si associarono nell’Irish Distillers Group, l’arca di Noé del nobile distillato. Il gruppo investì nella costruzione della gigantesca distilleria di Middleton e il Patent Still divenne stavolta l’ancora di salvezza. Inizia una risalita che ha portato, oramai da qualche anno, a una rinascita commerciale e qualitativa. Anche i grandi marchi come Jameson (Middleton) e Bushmill producono small batch e single malt e si sono moltiplicati gli imbottigliamenti distillati con l’alambicco tradizionale (es. Redbreast, Green Spot, Connemara). Oltre ai blended e ai single malt, esiste una tipologia tipica della verde isola che utilizza anche orzo non maltato, in aggiunta al classico malto d’orzo. Dal 2011, la denominazione utilizzata per questa tipologia di whiskey è Single Pot Still: in precedenza si trovava la definizione Pure Pot Still. Tante nuove distillerie stanno per aprire, o sono in progetto, e le esportazioni sono in continuo aumento.
Qualche curiosità
C’è un po’ di Italia nella tradizione del whiskey irlandese. Guglielmo Marconi era imparentato con la famiglia Jameson tramite la madre Annie: esiste un raro imbottigliamento celebrativo in onore dell’inventore della radio.
Se entrate in un pub e vedete qualcuno, probabilmente attempato, sorseggiare alternativamente un whiskey e una birra stout, sappiate che si sta godendo il suo chaser.
Rita, la madrescozzese del whisky giapponese