Ebbene sì! Gli inglesi stanno perdendo a poco a poco i loro capisaldi. Se a livello calcistico sembra ormai consolidato il trend che non li vede mai trionfare, seppur inventori del gioco più bello del mondo, ancor più grave sembra la perdita di Shakespeare, le cui origini siciliane sono oramai dimostrate, ma nulla sarà quando sapranno che praticamente hanno perso anche il gin, il loro distillato simbolo.
Grazie ad un documento ritrovato recentemente, l’iconico distillato della terra d’Albione si può ascrivere alle numerose eccellenze che hanno avuto origine in terra italiana, con buona pace anche degli olandesi. Infatti, fino ad oggi la tesi maggiormente in auge vedeva Franciscus Sylvis de la Boe (o de la Bouve) mettere a punto il primo gin, o meglio il jenever, nel 1617, considerato unanimemente il progenitore del gin. Trattandosi di un documento del 1555 proveniente da un manuale di ricette di stampo alchemico non possiamo affermare che il distillato di Alessio Piemontese servisse per fare il Gin & Tonic, o che avesse un qualsiasi intento voluttuario, ma sancisce in maniera definitiva che la distillazione del ginepro ci appartiene e non poteva essere diversamente visto che, come pianta aromatica, deteniamo l’eccellenza qualitativa. Il ritrovamento risale al 2015, durante la mia ricerca sulle origini del vermouth, per l’uscita del libro sull’eccellenza torinese: si è aspettato quasi due anni, con la pubblicazione del libro “Il Gin Italiano”, a renderlo pubblico, per poter effettuare le opportune verifiche. Ora la simbolica palla dei precursori passa a noi italiani e toccherà agli inglesi e olandesi portarcela via, con ritrovamenti del medesimo spessore. Più che una simpatica sfida dove peraltro non si vince nulla, ci piace considerarla una ricostruzione corretta delle vicende storiche dove spesso noi italiani, se si escludono vermouth e liquori, siamo sempre considerati buoni ultimi. Questo per affermare che il gin, in Italia, non è una moda, ma una semplice riscoperta di un prodotto ancestrale. Il documento non arriva e non fa riferimento alla prestigiosa Scuola Salernitana, come molti potrebbero aspettarsi… Questo perché questa ipotesi è già citata in alcuni testi, uno fra tutti di Gary Regan, che accenna alle origini italiane dei primi distillati di ginepro. Non si tratterebbe quindi di una novità. Pur non discutendo il valore dei documenti della Scuola di Salerno, del libro del Regimen Sanitatis e di altre opere fondamentali per lo studio dei benefici delle piante, quando si cercano le origini di un prodotto si devono trovare riferimenti il più possibili vicini a quello che noi oggi intendiamo per esso: non per nulla si parla di Carpano come dell’inventore del vermouth moderno e non del gastronomo dell’Antica Roma, Apicio che pur cita una ricetta di vino all’assenzio a scopo voluttuario. Quando si parla di ricerca, l’obiettivo è fugare ogni dubbio e soprattutto trovare documenti che non possano essere interpretati. Capiamo quindi cosa s’intende oggi per gin. Il gin è un distillato, nella quasi totalità dei casi, di un macerato in soluzione idroalcolica di più piante, dove il ginepro deve essere preponderante al profumo ed al gusto: questo secondo il disciplinare del 2008. Il risultato, con riferimento al London Dry, storica fino all’arrivo della rivoluzione dei Distilled, deve essere trasparente come l’acqua (criterio da ricordare), avere una percentuale di alcol massima di 70 all’uscita dall’alambicco e non può avere ulteriori aggiunte se non alcol neutro o acqua. È altresì vero che il disciplinare parla di gin come di un distillato dove può comparire anche il solo ginepro, così come sul mercato esistano prodotti, invero pochissimi, con questo tipo di stile produttivo a cui si rifanno i documenti del XIII e XIV secolo. Analizzando i fatti alla ricerca di un Botanical Gin, la tipologia di gin più comune, e i documenti che fino ad oggi erano in nostro possesso, gli olandesi citano, a supporto della loro paternità, prima ancora che De la Boe, Jacob van Maerland che XIII secolo trascrisse su un libro alcuni rimedi per lo stomaco e l’intestino a base di bacche di ginepro cotte nel vino. Il periodo è il medesimo dei documenti della Scuola, così come lo scopo curativo del rimedio, che non ha finalità voluttuarie. Anche Pietro Andrea Mattioli parla di ginepro infuso nel vino, nel 1544 nel suo maestoso Di Pedacio Dioscoride (…)affermando che il migliore provenga da Siena. Lo stesso dicasi per i tedeschi con il loro Hieronymus Brunswich che nel suo Liber de Ars Distillandi de simplicibus pubblicato postumo nel 1512, pertanto sicuramente antecedente, parla di distillazione di solo ginepro in alambicco a bagnomaria. Parlare di gin in questi casi è quindi oltremodo generoso, trattandosi della distillazione del semplice, spesso macerato in vino, e non in alcol, pratica che comunque sopravviverà fino alle soglie del XVIII secolo. Semmai dimostra che il suo utilizzo è presente a tutte le latitudini e che in Italia si trova l’eccellenza qualitativa. Arriviamo quindi al testo del 1555 di Alessio Piemontese, pseudonimo di Girolamo Ruscelli, storiografo italiano a cui spesso è stato associata in passato, e da alcuni studiosi, la paternità del vermouth, cosa oggi ritenuta del tutto inesatta, rileggendo attentamente il testo. Se nella ricerca del vermouth questo testo si è rivelato utile, ma non fondamentale, per la storia del gin lo è diventato. L’autore, dopo aver ringraziato il Signore per le facoltà ricevute e trascritto un suo curriculum vitae, inizia la prima parte del libro con un perentorio <<Ed il liquore è questo>>. Leggendo la sua biografia, forse, anzi quasi sicuramente sovra dimensionata per accreditarsi come autorevole scrittore, segno che il problema dei curriculum gonfiati esisteva ben prima dei giorni nostri, non ci stupiamo di questa affermazione in pompa magna. Un’indicazione preziosa circa l’importanza della ricetta che non ha pari nel proseguo del libro. Quello che ci fa esclamare ‘Questo è, di fatto, un gin moderno’, è la preparazione dello stesso che avviene in ampolla con acqua di vita, distillata due o tre volte al più, in unione con spezie ed erbe. In una di queste ampolle, Piemontese mette chiodi di garofano, aloe, anice, semi di nocchio, scorze di cedro, mirra, radici di dittamo, legno di sandalo e grani di ginepro. Tutti ingredienti che non sfigurerebbero in un gin, eccezione forse per l’aloe, decisamente più usato nella liquoristica amara. Da notare che se degli altri ingredienti le dosi parlano di una parte o di mezza parte, di ginepro il nostro ne consiglia da quattro a sei: pertanto risulta essere il principale aromatizzante. Altro tassello molto importante pensando al disciplinare del gin. La caraffa, colma di acqua di vita e delle piante suddette, andava lasciata al sole un giorno intero e lasciata riposare una notte. La caraffa contenente le piante andava vuotata e riempita nuovamente di acqua di vita fino a che questa fosse risultata quasi completamente trasparente, a significare che i principi erano esauriti. Una macerazione classica per esaurimento, considerati i costi delle spezie, che si può ritrovare come tecnica anche nella percolazione, che però sarà messa a punto solo secoli dopo. Terminata questa operazione, seguiva una distillazione piuttosto complicata, suddividendo il composto su piccole bocce di vetro, che scaldate davano come risultato ‘acqua di vita chiarissima come un cristallo’. Questa frase vale come prova evidente delle caratteristiche organolettiche del prodotto finale, la cui analogia con il gin moderno, con riferimento al London Dry, è evidente. La mancanza di velature conferma anche una gradazione alcolica importante e, pur mancando gli alcolimetri, possiamo pensare fosse elevata poiché gli oli delle spezie a cui fa riferimento Piemontese, soprattutto all’anetolo dell’anice e del nocchio, opacizzerebbero il liquido a percentuali di alcol inferiori ai 50. A questo punto non avreste pensato di essere di fronte allora al primo Botanical Gin della storia? E non avreste pensato che fosse giusto riscriverne la storia? Lunga vita al Gin Italiano.
Uno è Poco, Due Sono Troppi, Tre Non Sono Abbastanza