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Liquore? Una questione… di cuore

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Dopo l’arrembaggio del gin, la rinascita del vermouth e la primavera degli amari, l’Italia prepara il campo ad un grande protagonista della nostra cultura del bere

Avviata nel 2010 e tutt’ora in corso, oggi consideriamo la rinascita del vermouth una marcia trionfale, idealmente iniziata con il Salone del Gusto di Torino di quell’anno, e che non sembra ancora conclusa.
Di li a poco, grazie all’assonanza di gusto, all’imprinting presente nella nostra cultura ed ad un rinnovato interesse della mixology – sia anglofona che italiana – abbiamo visto rinascere gli amari, che stanno attualmente vivendo la loro primavera. L’epoca del Non Gusto nei distillati è tramontata definitivamente con il ritorno, se mai se ne fosse andato, del gin, con l’Italia sugli scudi. A questo punto, idealmente, toccherebbe ai liquori, altro baluardo riconosciuto ed imprescindibile di italianità.

I segnali confortanti ci sono. La rinascita della miscelazione classica, come la riscoperta del Futurismo, hanno fatto nuovamente parlare i barman di liquori classici che popolavano e popolano la nostra penisola: ratafià di frutta, rosoli e elisir sono ritornati nelle carte cocktail come coadiuvanti e correttori, o nei menù dei ristoranti come proposta nel dopo cena. La strada da fare, però, è ancora lunga.

Al mondo della liquoristica manca, ad esempio, un istituto che tuteli la produzione di qualità, composto dalla maggioranza dei produttori come nel caso del vermouth, o da uno o più top player che abbiano in portfolio prodotti qualitativi e che per essi investano consistenti budget, tirando una volata comune all’intero comparto. In ambito liquoristico non si vede ancora una forma di associazionismo o volontà, se non estemporaneamente per qualche manifestazione estera dove occorre fare necessariamente gruppo per sostenere le spese di trasferta: ma al ritorno “in patria” si procede in ordine sparso, contando sul proprio blasone nel caso delle aziende storiche, o sulla capacità di innovare e di stupire da parte dei nuovi. Ovvia conseguenza è che, anche all’estero, i liquori non abbiano ancora destato sufficienti interessi, volumi e relativi budget da investire.

Tutto perduto, quindi? Non proprio. Soprattutto in Italia dove, sommando la storia dei singoli produttori dalla data di fondazione, si potrebbero ottenere millenni di storia. I liquori sono nel nostro dna: nati come prodotti di benvenuto, sorseggiati nei pomeriggi di chiacchiere attorno ad un tavolo fra parenti ed amici, hanno scandito le serate e le festività di molti di noi. Un patrimonio ancestrale, presente nelle nostre abitudini e, forse, semplicemente da risvegliare.
La svolta avviene sul finire del Seicento, quando molti rimedi medici ricostituenti (frutti in macerazione quali ciliegie e prugne) diventano pian piano voluttuari, grazie alla sempre maggior presenza di zucchero. Ecco dunque che i testi degli speziali e i manuali dei confettieri che operavano nelle corti si trasformano nei primi manuali di liquoristica, con capitoli dedicati a rosoli e ratafià. Da metà Ottocento in poi, i prodotti favoriti dai consumatori si conquistano posti d’onore sulle prime pagine: liquori all’anice – spezia egemone dell’epoca – seguiti dal Maraschino, dal Ratafià di ciliegie, ovvero il Cherry Brandy, con a breve distanza i rosoli di scorze di agrume. Senza tralasciare una Benevento, imitazione del famoso liquore giallo della provincia omonima, un amaretto ottenuto con noccioli di frutta, ed un assenzio. Seguivano decine di specialità dai nomi evocativi, solitamente dolci, come il Latte di Vecchia, Kummel, Millefiori e Goccia d’Oro. Preparati con frutta e spezie fresche oppure ottenuti mescolando essenze naturali, sono sempre stati uno specchio del nostro territorio, ma indiscutibilmente è durante l’autarchia dei primi decenni del Novecento ed il primo Dopoguerra che il loro successo fu massimo. La diffusione nel tessuto sociale è testimoniata dalle decine di cataloghi pubblicati dalle aziende di aromi industriali, spediti a casa dei consumatori invogliandoli a realizzare il proprio liquore casalingo, con un numero di distillerie ed opifici iscritti all’albo che supera le duemila attività.

Come è duque possibile che un tale patrimonio di cultura e consumo sia andato perduto?
Per capirlo occorre analizzare,, ancora una volta la storia.

Se ci soffermiamo sulla modalità di consumo dei liquori, solitamente bevuti lisci e sorseggiati in piccoli bicchieri, constatiamo che l’Italia non ha mai avuto grandi cocktail internazionali confezionati ad hoc, poiché da sempre propensa a mescolare amaro più amaro, ovvero vermouth e bitter. Furono solo i barman stranieri ad utilizzarli come coadiuvanti e correttori nelle loro miscele: da qui il loro oblio, quando nei bicchieri iniziarono a finire cocktail semplici sodati, figli della disco music in grado di variare le abitudini sociali degli italiani, che abbandonarono progressivamente la convivialità per isolarsi davanti ad un computer. Un consumo, dunque, considerato vecchio, appartenente ai propri genitori, che la ribellione voleva cancellare, unito all’avvento del gusto e del divertimento targato stelle e strisce. II modello da seguire era infatti Hollywood, non certo quello dei minibar dei salotti boisè delle nonne.

Da questa lezione potremo apprendere i segreti del prossimo rilancio? Se diamo per scontato che lo stile vincente di consumo sia il cocktail, al momento il nostro punto di debolezza sta nel fatto che non abbiamo uno o più cocktail vincenti con i nostri liquori. Rivisitare grandi classici del passato e sostituire il brand internazionale con uno italiano potrebbe non essere sufficiente, oltre che poco adatto e palesemente poco originale. La creatività ed il genio infatti ci appartengono. Prendere spunti è corretto, ma poi bisogna saper camminare con le proprie gambe per crearsi un proprio stile.
Una miscelazione neo futurista e neo classica che abbia il territorio nel cuore potrebbe essere l’arma vincente, anche se la parola “territorio” è abusata, tanto come la parola “tipicità”. Ecco che, allora, la strada da seguire potrebbe essere quella della “ricerca”: da una parte i grandi classici, che con la loro storia andrebbero semplicemente riscoperti; dall’altra parte le aziende, chiamate a ricercare una maggiore attenzione all’etichetta e alla bottiglia, magari talvolta rivista in chiave moderna ricordandosi che quello che fa battere il cuore ad un vecchio barman… magari annoia le nuove leve. Senza dimenticare il profilo del gusto, cercando di lavorare per rendere più intriganti al palato moderno determinati prodotti, il cui gusto marca il segno del tempo.

Ed infine… i nuovi. Ogni giorno si scoprono nuovi liquori e nuovi opifici che, dando sfogo alla fantasia ed utilizzando materie prime di eccellenza, confezionano magnifici liquori.

Assodato che gli italiani difficilmente fanno squadra e che sarebbe forse utopico vedere un consorzio di piccoli produttori promuovere all’unisono i propri prodotti, la palla passa di conseguenza, e necessariamente, ai colleghi dietro al banco. Eventi a tema come Aperitivi&Co Experience possono dare una mano, ricordandoci però che è pressoché impossibile raggiungere tutti e rappresentare ogni piccolo produttore (tenendo presente che, nel mercato moderno, costruire una strategia di marketing costa decine di migliaia di euro).

Invece che lavorare sempre su nuovi home made, dalla qualità scostante e dalla lunga realizzazione, facendo ricerca allo stesso modo in cui un sommelier struttura la propria carta dei vini, un barman potrebbe dedicarsi alla scoperta di nuovi liquori. Un giusto mezzo fra realizzazioni del barman e chicche scovate sul territorio italiano potrebbe essere vincente. Ed anche divertente. Visitare distillerie ed opifici, se appassionati del proprio lavoro, diventa un eccellente svago, anche in vacanza o nel giorno libero. Una carta fatta di vecchio e nuovo, classici e moderni, con netta prevalenza di eccellenze italiane, potrebbe essere il nuovo corso della nostra liquoristica.
Ce lo auguriamo tutti.

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